lunedì 16 luglio 2012

Uno stupore che non smette mai.

Lo stupore che non smette mai, è quello che mi prende sempre quando vedo leggo ascolto di persecuzioni, violenze, genocidi ed eccidi nazisti e fascisti, a prescindere dalle latitudini in cui si sono consumati, Europa, America Latina, Israele (e me ne perdonino gli ebrei sopravvissuti, ma così è)... Così è stato anche per questo libro di Shlomo Venezia: tratto dal testo, ampliato, di un'intervista rilasciata a Béatrice Prasquier, la prosa è semplice e scarna e ci rimanda alla banalità e alla normalità del male di cui parlava la Arendt. Come possa diventare "normale" vivere (o meglio, come occorra rendersi forzatamente distanti dal fermarsi a riflettere su ciò che si fa) accompagnando a morire, spostando cadaveri e bruciandoli, e come questa "normalità" ci tolga PER SEMPRE dalla normalità dell'essere, del vivere, felici: Shlomo lo ribadisce all'inizio e alla fine del libro: "Non ho più avuto una vita normale. Non ho mai potuto dire che tutto andasse bene e andare, come gli altri a ballare e a divertirmi in allegria... Tutto mi riporta al campo. Qualunque cosa faccia, qualunque cosa veda, il mio spirito torna sempre nello stesso posto. E' come se il "lavoro" che ho dovuto fare laggiù non sia mai uscito dalla mia testa... Non si esce mai, per davvero, dal Crematorio". Altrettanto illuminanti le postfazioni storiche dei curatori Marcello Pezzetti e Umberto Gentiloni Silveri, sui campi di sterminio e sulla campagna di Grecia e la successiva, conseguente deportazione.

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